Licenziamento per miglior profitto: cosa rischiano i lavoratori italiani

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Il licenziamento per maggior profitto è uno tra i temi di maggior attualità nel panorama lavorativo e sindacale italiano. Il dibattito è animato da una pluralità di opinioni eterogenee, drasticamente opposte anche all’interno delle stesse categorie coinvolte.  

Che cos’è il licenziamento per cause economiche (o per maggior profitto).

Ma prima di entrare nel vivo della discussione è preferibile fare chiarezza, esplicando nel dettaglio cosa si intenda con la suddetta espressione. Il licenziamento – è noto, persino forse ridondante-  rappresenta l’atto tramite il quale il datore di lavoro recede in modo unilaterale dal contratto di lavoro con un suo lavoratore dipendente. Sono parecchie, nel panorama legislativo nostrano, le normative generali che regolano il licenziamento. Si citano a riguardo gli articoli 2118 e 2119 del Codice civile, rispettivamente inerenti la recensione dal contratto a tempo indeterminato e il recesso per giusta causa.

La legge n. 604 del 15 luglio 1966 ribadisce invece l’illegittimità del licenziamento senza giusta causa, conferendo somma rilevanza giuridica ai motivi del licenziamento. Una norma, dunque, elaborata per regolamentare il licenziamento individuale. Il compito di disciplinare il licenziamento collettivo compete invece all’articolo 18 dello statuto dei lavoratori (ovvero la legge 20 maggio 1970, n. 300 della Repubblica Italiana). La legge del collegato lavoro (n.183 del 4 novembre 2010) regolamenta invece le controversie e rende facoltativo il tentativo di conciliazione, in precedenza obbligatorio. 

Fatta questa premessa, il licenziamento per maggior profitto riguarda motivi economici; comprendenti nel dettaglio l’attività produttiva e l’aumento della redditività; l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento della stessa. Tali motivazioni  – a patto che si verifichi l’effettività del ridimensionamento e del nesso causale tra la ragione addotta e la soppressione del posto di lavoro del dipendente che viene fatto oggetto del licenziamento – possono giustificare un licenziamento (anche in presenza di un contratto a tutele crescenti): lo ha riconosciuto la Suprema corte di cassazione della sezione lavoro, attraverso la sentenza numero 19655 depositata il 7 agosto 2017. Tale atto non rappresenta una novità quanto piuttosto la conferma di indirizzo già consolidato dall’organo, tramite svariate sentenze analoghe: quella del 7 dicembre 2016, n. 25201; quella dell’8 novembre 2013, n. 25197; quella del 14 maggio 2012, n. 7474; quella dell’ 11 luglio 2011, n. 15157.   

Perdere il lavoro senza colpa? E’ possibile

Nello specifico della sentenza del mese scorso, la Corte era stata chiamata a esprimersi circa la vicenda di un dipendente di un’azienda automobilistica, licenziato a causa della soppressione del reparto in cui egli era impiegato (Ricerche e Sviluppo per il collaudo, la sperimentazione e l’analisi tecnica delle vetture) . In primo e in secondo grado il licenziamento venne riconosciuto legittimo.

La Corte d’appello aveva condannato la società datrice di lavoro alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro, con pagamento – a suo favore e a titolo di risarcimento – delle retribuzioni che erano maturate dal momento del licenziamento. Veniva dunque confermata l’illegittimità del licenziamento in quanto a fronte della deduzione della società datrice “unicamente dalla soppressione del reparto a cui il predetto era assegnato” veniva accertato che l’istruttoria esperita “neppure sia stata valevole alla dimostrazione della soppressione del settore per il quale il F. C. era stato assunto. Una sentenza, dunque, completamente ribaltata dai giudici della Corte di Cassazione.