La ricerca in Italia è uno dei tanti simboli dei ritardi che, a volte, il nostro paese sconta nei confronti degli altri membri dell’Unione Europea. Si fa un gran parlare della cattiva situazione della ricerca in Italia e del pessimo stato in cui versano i ricercatore. Ma veramente fare il ricercatore in Italia è una pessima scelta? Ecco uno studio in grado di rispondere a questa domanda.
La ricerca in Italia
Di recente ha fatto scalpore lo sciopero bianco indetto dal Coordinamento nazionale ricercatrici e ricercatori non strutturati, un’associazione che riunisce sotto una sola bandiera i ricercatori precari. E’ stato un occasione per affermare un diritto ma anche per comunicare all’estero quanto sia difficile fare il ricercatore in Italia. L’evento infatti ha fornito l’occasione per diffondere alcuni dati allarmanti e attirare, legittimamente, l’attenzione dell’opinione pubblica.
In particolare, sono più di 66.000 i ricercatori precari dell’università italiana. Un numero persino superiore ai professori e ricercatori a tempo indeterminati messi assieme. La sensazione, quindi, è che l’università italiana, viste anche il crollo dei finanziamenti pubblici, si regga grazie soprattutto ai ricercatori precari. Eppure vengono considerati degli “invisibili”, a loro non viene prestata la debita attenzioni in termini di diritti. Non hanno un contratto, non godono del sussidio di disoccupazione quando le borse di studio scadono, non hanno tredicesime e così via.
Quanto guadagna un ricercatore universitario
Il Coordinamento ha diffuso una serie di dati allarmanti sotto il profilo economico. Fare il ricercatore in Italia, se si è precari, è davvero difficile anche per una questione di soldi, di sostentamento vero e proprio. Lo studio rivela su un campione di 1.200 precari rivela che la maggior parte di loro ha lavorato per almeno 10 mesi gratuitamente, senza godere di alcuna garanzia circa il proprio futuro. Dopo cinque anni di ricerca, sono autori, mediamente, di 7 progetti a testa; hanno eseguito (sempre in media) 14 consulenze e registrato 2 brevetti.
Altro dato allarmante: hanno lavorato in media 55 ore a settimana. Ciò vuol dire qualcosa come 11 ore al giorno, se si escludono i sabati e le domeniche (molti ricercatori però dichiarano di lavorare anche in quei giorni, se gli esperimenti lo impongono).
Fare il ricercatore in Italia vuol dire lavorare con pochissimi diritti e avendo uno “stipendio”, se così si può chiamare, veramente basso. In media, una borsa di studio consiste in una cifra intorno a 1.000 euro al mese, senza contributi e senza tredicesima. Soprattutto, come abbiamo visto, senza orari, poiché si ragiona a obiettivi. Ragionare per obiettivi, quando si parla di ricerca, è giusto ma sarebbe altrettanto giusto creare degli ammortizzatori tale per cui questa necessità non gravi sulla spalle dei ricercatori.
Al centro della discussione è proprio il concetto di ricerca. Secondo alcuni, la ricerca non è lavoro, ma studio. Da questa affermazione discendono, in parte, le reticenze circa l’assegnazione, per esempio, dei sussidi di disoccupazione. Nei fatti, però, la ricerca è un lavoro in quanto presuppone uno sforzo intellettuale, prende del tempo (ricordiamo le 11 ore al giorno), produce risultati e, anzi, contribuisce a far funzionare l’università italiana.